Se c’è un attore che oggi rappresenta la parte più giovane e meno convenzionale di Hollywood, quello è Joaquin Phoenix, figura fondamentale per capire cosa stia diventando il cinema americano. Lei, il film con cui arriva nelle sale italiane questo weekend, è solo l’ultimo e forse il più clamoroso dei lavori che l’hanno visto accanto ad alcuni tra i più innovativi registi della sua generazione (Spike Jonze, James Gray, Casey Affleck). In un futuro non troppo lontano ma anche sufficientemente poco riconoscibile (attenzione alla città in cui vive, un luogo inesistente realizzato assemblando in digitale parti delle città più futuristiche di oggi da Shanghai a Los Angeles) un uomo solo, appena uscito da una storia d’amore, rielabora il suo bisogno d’affetto attraverso la relazione sentimentale con il sistema operativo del suo personal device (qualcosa di più degli smartphone odierni).
Come si accorgerà chi andrà a vederlo al cinema, grazie al suo protagonista Lei è uno dei pochi film contemporanei a prendere il sentimentalismo da un altro punto di vista: giocando con l’impossibile e lo strano (ovvero la storia d’amore con un’intelligenza artificiale) abbassa le nostre difese e lascia passare emozioni inaspettate e una nuova visione umanistica del contesto che viviamo già.
Non sorprende quindi che sia interpretato da Joaquin Phoenix, prima attore bambino, poi ragazzo emerso con ruoli da cattivo grazie al suo sguardo truce e ora uno degli interpreti più originali e spiazzanti. Siano i tentativi di forzare la forma del documentario, sia il superamento dei generi consueti, sia infine l’evoluzione del grande kolossal storico, nulla di ciò a cui sta partecipando Joaquin Phoenix si rivela un film normale, molto è destinato a cambiare (anche se solo di poco) il cinema americano come lo conosciamo. Anche se la sua carriera era iniziata nella maniera più convenzionale possibile.
Fratello di River Phoenix, che quando erano piccoli era più noto di lui (stava in Stand by me) ma è morto giovanissimo, nel 1989 girava uno dei primi ruoil importanti in Parenti amici e tanti guai mentre il fratello interpretava il giovane Indiana Jones nel prologo di L’ultima crociata. Già a 15 anni gli venivano affidati i ruoli di personaggi “con problemi”, stigma che gli viene da un volto particolare e che ha faticato a superare. Di certo questa nomea gli è poi venuta comoda per ottenere il ruolo che l’ha lanciato: l’imperatore romano di Il gladiatore. Faccia da bastardo e occhi da sensibile perdente, voltagabbana pronto a tutto. Da lì la sua carriera cambia e si instrada verso il successo convenzionale arrivando a 30 anni ad interpretare Johnny Cash in Walk the line (il film biografico è un rito di passaggio per gli attori americani, un modo per guadagnarsi le prime nomination e dimostrare di essere pronto per il cinema di serie A).
Fin qui tutto normale. Questo è il percorso di mille altri attori prima di lui ma dal 2005 cambia tutto, dopo Walk the line Joaquin Phoenix cambia marcia e comincia a scegliere registi, film e ruoli che non hanno niente di normale, andando al di là di ogni stereotipo o ruolo da caratterista. In questo Phoenix è l’attore moderno per antonomasia, quello che cerca di violare il dogma della specializzazione e che mescola la tecnica attoriale con il realismo degli ambienti. Ad annunciare il cambio è I padroni della notte, film che si presenta come un poliziesco ma che in breve diventa un melodramma in cui è proprio l’interpretazione di Joaquin Phoenix a cambiare il tempo e il genere. Sembra la metafora della sua carriera, inizia come un qualsiasi bastardo da poliziesco e lentamente diventa qualcosa di più complesso che esula dal genere. Esperimento che quest’anno ha ripetuto sempre con James Gray in C’era una volta a New York, melodramma che non ha nulla di normale.
Rifiuta ogni idea di recitazione classica, non sceglie mai un registro solo, non è solo leggero o solo minimalista o solo esagerato. E’ un remissivo ma anche audace amante in Two lovers, dramma disperato, ancora con James Gray, che ribalta come un guanto Le notti bianche di Dostoevskij, viola il testo originale e trova l’unica maniera di renderlo moderno negli sguardi sognanti e tristissimi del suo sfigato protagonista.
La medesima rabbia che non cela mai nel nervoso adepto di The Master (Coppa Volpi a Venezia assieme a Philip Seymour Hoffman, che nel campo della recitazione era il suo opposto, classico e misurato come i grandi degli anni ‘50), forse l’interpretazione più strana. Cosa provi quel marinaio è difficilissimo da capire, non agisce secondo logica, sembra una macchina bisognosa ma anche ritrosa, è isterico ma con degli occhi docili come un cucciolo. Il corpo che fa una cosa e il volto che ne fa un’altra, semplicemente pazzesco. Anche nel meno riuscito I’m still here dimostra una forza vitale e artistica non normale: fingere per mesi e mesi di aver lasciato il mondo della recitazione e di essere diventato un pessimo rapper per girare un finto documentario su se stesso, fare la figura del deficiente ovunque per motivi artistici e mettere in scena il bisogno di fama contemporaneo sul proprio corpo.
Tra qualche anno ricorderemo questa fase della carriera di Joaquin Phoenix come una delle più importanti nella storia della recitazione hollywoodiana.