“La mia carriera la immaginavo tutta a teatro non pensavo davvero che avrei mai fatto film. Al massimo delle piccole parti. Quindi il fatto che ora sia qui lo trovo sinceramente assurdo!” chi parla è Mark Ruffalo, ovvero Hulk e uno degli attori più interessanti emersi negli ultimi anni, e il “qui” a cui fa riferimento è il Festival di Venezia in cui arriva Fuori Concorso un film davvero sorprendente che lo vede tra i protagonisti: Il caso Spotlight. Fanpage.it ha partecipato alla round table che l'ha visto protagonista al Lido e ha raccolto le sue dichiarazioni.
La storia è quella dello scandalo pedofilo emerso a Boston nel 2002, tutto raccontato dalla parte dei giornalisti che lo svelarono, un team rappresentato dallo stesso Ruffalo, da Rachel MacAdams a Michael Keaton fino a Stanley Tucci e Liev Schreiber, un lavoro di squadra in cui però questo straordinario interprete, capace di passare dai supereroi ad un modesto giornalista, emerge nettamente: “Sai, Hulk è forte perchè spazi con la fantasia, puoi fare quello che vuoi, inventare e creare per raggiungere il tuo obiettivo, sia esso far ridere o piangere. Qui invece parliamo di una persona vera con cui ho parlato, bisogna fare attenzione e rendergli il miglior servizio possibile mentre comunque interpreti un ruolo”.
La riuscita del film è magnifica, di fantastica leggerezza (considerato il tema) e appassionante tensione verso la scoperta, anche se siamo al secondo giorno di festival è un evidente trionfo qui a Venezia, e in tutto questo è proprio il personaggio di Ruffalo a regnare. Lui è il più dinamico, l’unico che corre, si danna, urla, si dispera e non molla mai le sue fonti per arrivare a trovare le prove che diano sostanza ad un’inchiesta sempre più grande. Per arrivare a incarnare questa fantastica tensione anche quando è fermo, anche quando ascolta altri parlare, neanche a dirlo, il metodo è stato quello americano più classico e ce lo ha spiegato proprio Ruffalo da una terrazza sulla laguna: “Sono stato veramente tanto tempo con il vero Michael Rezendes. Ho mangiato con lui, parlato con lui, viaggiato con lui, mi pareva di essere io il giornalista a tratti. Gli facevo domande e cercavo di scoprire cose su di lui ma con onestà, rivelandogli cosa ne avrei fatto”. Il risultato paga e se la sua interpretazione davvero si avvicini alla realtà ce lo ha confermato il regista del film Tom McCarthy: “Mark l’ha reso alla perfezione. Pazzesco. Il vero Rezendes si muoveva proprio così, sempre determinato, secco, netto. Quando l’ho visto sono rimasto stupito, l’ha centrato. A tutti gli attori ho chiesto di incontrare le loro controparti reali e il risultato è sullo schermo”. Viene spontaneo però notare che, a fianco all’imitazione, Ruffalo ha dato un’anima e una forza particolari al suo personaggio. Non stupirebbe davvero, a Gennaio, trovarlo tra i nominati all’Oscar di quest’anno.
“La differenza tra imitare e interpretare” spiega Ruffalo “sta nel fatto che non devi essere una replica, non devi essere morto dentro. Prima impari a muoverti come lui e scovi le sue peculiarietà e poi te lo dimentichi. Lo impari e lo metti da parte così da poter far spazio all’interpretazione, cioè quel che ci metti tu di tuo. Alla fine è la spontaneità che fa commuovere le persone”. Però è vero che molti attori non vogliono assolutamente imitare le vere persone quando lavorano a film tratti da storie vere? “Si ma sbagliano, loro credono che questo sottragga qualcosa all’arte eppure non è così, è una forma di liberazione!”.
Come già detto accanto a lui ci sono Micheal Keaton, Rachel MacAdams, Liev Schreiber (il suo direttore, un personaggio di fantastica calma) e l’immenso Stanley Tucci, uno degli attori con più film sulle spalle, quasi mai protagonista ma sempre determinante. Un volto noto e un nome non troppo famoso ma solo vederlo fa saltare alla memoria un’infinità di piccoli ruoli memorabili e anche lui, che abbiamo sentito dopo Ruffalo, ritiene che quando lavori in queste condizioni, su un tema così duro e dei personaggi che sono ancora vivi, c’è solo una cosa che puoi fare: “Essere onesto. Non concederti nulla e metterti al servizio del personaggio, cercare di capire cosa vuole e cosa ha cercato in quella storia”.
Il film uscirà in Italia e ovviamente sarà doppiato, in originale però tutti devono assumere il peculiare accento di Boston e questo non è un particolare secondario: “Una volta il mio insegnante di recitazione mi disse una grande verità” spiega Mark Ruffalo “ovvero che da come una persona parla puoi capire chi è. Pensateci un attimo, è così. Lo stile della parlata dice moltissimo su come e cosa quella persona pensa, ne rivela molti tratti. Per cui non si tratta di imitare un accento, ma di comprendere una parlata. Tant’è che appena ho saputo di aver avuto la parte la prima cosa che ho fatto, prima ancora di incontrare il vero Rezendes è stata andarmi a vedere dei suoi video, per capire al volo chi sia”.
Un’ultima domanda indispensabile andava fatta a Ruffalo: sei stato attore indipendente a lungo, poi sono arrivati film immensi come Avengers e la grande popolarità, eppure continui a lavorare anche a progetti piccoli e ambiziosi come questi, che ti puoi permettere proprio grazie a quella popolarità, a cos’è che sei davvero legato? “A cosa? A Terry Prescott di Conta su di me o a Dan di Tutto può cambiare, personaggi di film magari meno visti ma che per me sono come famiglia”.