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La bella società, la Sicilia vista da Raoul Bova e Maria Grazia Cucinotta

Il ritorno al cinema di Gian Paolo Cugno è un pasticcio pesante che cerca di ravvivare alcune tradizioni del cinema italiano, con troppe ambizioni.
A cura di Emanuele Rauco
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Maria Grazia Cucinotta e Raoul Bova in un'immagine de La bella società

Dopo un film fin troppo semplicistico come Salvatore-Questa è la vita, prodotto dalla Disney, Gian Paolo Cugno torna al cinema col suo secondo film da regista, La bella società prodotto nientemeno che da Medusa che ci ha investito un considerevole (e misterioso) budget, e non solo conferma le difficoltà creative del regista, ma è una tragica ammissione di mancanza di talento.

Complicata da una trama che si diverte ad andare avanti e indietro nel tempo e che racconta di due fratelli, Giuseppe e Giorgio, che si portano dietro le conseguenze di un incidente quand’erano bambini e che dovranno farne i conti quando la loro vita da adulti si complicherà con la scoperta dell’amore e della politica. Cugno, assieme a Paolo Di Reda e Chiara Giordano, mette insieme un macchinoso (sebbene il regista dichiari il contrario) melodrammone semi-storico che però puzza spesso di un plagio ibrido di Tornatore (dei poveri) e Giordana. Per parlare infatti dell’evoluzione della società siciliana e dei suoi abitanti dagli anni ’50 agli ’80, il film si struttura attraverso la scelta romanzesca del mix tra pubblico e privato, congiungendo temi ancestrali e viscerali come l’amore passionale o quello familiare ad aperture storico-sociali sulla lotta operaia, il valore dell’arte, il terrorismo rosso.

Ne esce fuori un pasticcio che davvero non sembra dove andare a parare: la prima parte mischia Baaria – vincitore di uno speciale Nastro d'argento 2010 – e L’uomo delle stelle (tra i peggiori film di Tornatore, per altro) si compiace di immagini evocative, con dolly e carrelli simbolici e poi si sposta a una sorta di realismo poetico, che mescola senza ritegno l’eros, Avola e le Brigate Rosse, in una sorta di parodia della Meglio gioventù. A Cugno manca innanzitutto il calibro del narratore, visto che fa succedere tutto o quasi nei primi dieci minuti, accettando la sceneggiatura e facendo cambiare tutto da una scena all’altra senza motivo; ma gli fa difetto persino la tecnica primaria, come dimostrano i numerosi primi piani fuori fuoco (fidatevi, non è un scelta) o la didascalia sbagliata “anni ‘80” che dopo poco cambia in “anni ‘60”. Una patetica telenovela di bassa fattura che vorrebbe riscattarsi con gli attori e in effetti più che i divi Raoul Bova (in attesa di figurare con Jolie in The Tourist) o Maria Grazia Cucinotta, ora sul set con Anthony Hopkins, fa piacere vedere David Coco, Marco Bocci e il solidissimo Giancarlo Giannini, ormai più regista che attore. Che però non hanno la voglia di dare una vera sterzata a un film particolarmente brutto.

Emanuele Rauco

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