Gli applausi durante la proiezione al Festival di Cannes potevano essere già un indizio forte ma ora i 6 Oscar, tutti tecnici, per Mad Max: Fury Road, sanciscono che è così che un film andrebbe fatto. Trionfo di critica, di pubblico e di Tarantino, il quarto capitolo della serie, arrivato decenni dopo il terzo da un regista ormai 70enne che però sembra più energico di un giovanotto, è il film più determinante dell’anno. Presentato originariamente fuori concorso al festival francese, nel tempio del cinema d’autore aveva fatto strappare i capelli e stimolato grida di godimento prima ancora che si arrivasse alla sua fine, poi nelle sale è stata una passerella di applausi.
Migliori costumi, Migliore scenografia, Miglior trucco, Miglior montaggio sonoro e miglior sonoro, fino al più meritato di tutti: Miglior Montaggio. Mancava solo la vittoria nella categoria Migliore Fotografia per fare incetta di tutti i premi tecnici più rilevanti, ma in quel caso troppo clamoroso è stato il lavoro di Emmanuel Lubetzki per The Revenant. Un dominio mostruoso per questo film australiano, action movie che ridefinisce quello che si può fare e come si possa lavorare sul movimento, un trionfo di tecnica per un racconto di furia animale che vibra come fosse percorso da elettricità. Storia virile in cui domina una donna e in cui i contributi tecnici determinanti sono venuti quasi tutti da donne, a partire da Margaret Sixel, la montatrice che odia i film d’azione e che proprio per questo è stata scelta.
Nonostante i volti degli attori e i nomi dei registi siano spesso ciò a cui ci appoggiamo per giudicare la bontà di un film, questa specie di rock opera desertica è arrivata a dimostrare il contrario, quanto cioè possa contare il contributo tecnico nel confezionare un capolavoro. Con poche parole e molte azioni, con tantissimo cinema di corpi e movimenti, di stunt veri e computer grafica ridotta al minimo, Mad Max: Fury Road si è fatto strada agli Oscar come mai era riuscito in precedenza agli altri film della saga, in anni in cui sembravano molto più capaci di incidere nell’immaginario collettivo.
Ma questa è anche la storia pazzesca di George Miller, regista che sembrava dover spaccare il mondo negli anni ‘90 e che invece ha deciso di sterzare la propria carriera su film come Babe – Maialino Coraggioso o Happy Feet. Passando al cinema per tutta la famiglia, ha lavorato per più di un decennio su maiali parlanti e pinguini danzanti, con risultati tecnici sempre mirabili ma senza quella capacità di pervadere la pellicola di una scossa magnetica, senza la possibilità di immaginare scenari complessi ed esotici in cui ambientare storie al limite dell’umano. Ci doveva tornare dopo i 70 anni a quanto pare. Difficoltà produttive, problemi con quello che doveva essere il protagonista originale anche del quarto film (Mel Gibson) e congiunture economiche sfortunate hanno fatto slittare il suo ritorno al futuro disperato di Mad Max di anno in anno, già a partire dall’inizio degli anni 2000. Quindici anni di purgatorio per vedere la luce, ma è stato meglio così forse.
Potenzialmente fuori dal nostro tempo, l'estetica anni '80 di Mad Max si è rivelata ancora attuale proprio grazie a scenografi, truccatrici e costumiste da Oscar. Il suo passo svelto e sincopato non è il frutto di un regista rimasto indietro ma la sperimentazione di un pioniere. Già esistono video essay centrati sulle tecniche e la maestria della fotografia e del montaggio di questo film, un sequel è ovviamente in produzione e non stupirebbe di scoprire che film “in stile Mad Max: Fury Road” siano in produzione. Come accadde qualche anno fa per l’indonesiano The Raid: Redemption, che pur senza la benedizione degli Oscar ha cambiato tutto il cinema d’arti marziali, ora Max il matto diventa il punto di riferimento a cui comparare ogni altro film che si presenta come “vero cinema d’azione”.